Il carcere uccide. Su Alfredo Cospito e 41 bis.
Riceviamo e volentieri diffondiamo. Sono contraria al 41bis. Perché sono contraria alla tortura, alla pena di morte.Lo Stato non può maneggiare certe cose.C’è ben poco da disquisire.Devo invece trovare almeno un paio di punti fermi, da non dover discutere qui o in tante altre situazioni, per mantenere una certa dignità e non lasciare che si abbassi vertiginosamente la qualità dei pensieri e della vita, anche solo quella di ogni giorno.Ed è triste e sconfortante, a dir poco, trovarmi ad iniziare con tali frasi. Ma in questi giorni è evidente più che mai che di alternative al carcere non è ammesso discutere. Dunque, il 41bis è una forma di tortura.E non la voglio per nessuno e in nessun caso.Ritrovarsi a parlare di “garanzie costituzionali”, “vergogna del sistema penitenziario”, “detenzione umana” è piuttosto indicativo del livello di melma in cui viviamo.La vergogna vera è questa società, perché il carcere non è un altro mondo, è parte di tutto il resto, è parte di ciò che siamo adesso.E se ci ritroviamo incapaci di ridiscutere argomenti quali il carcere come progetto efficace, dei limiti che i governi devono avere nel bilancio tra difesa dell’ordine e garanzia delle libertà fondamentali, se ci capita di dimenticare quanto c’è di buono nella nostra Costituzione, scritta da chi stava giusto uscendo dalla dittatura, se non sappiamo pensare in grande, se troppi “dubbi” ci attanagliano, facciamo che nel dubbio, nessuno può torturare nessuno. Ero contraria al 41bis anche prima che ci finisse Alfredo Cospito, ed ora gli sono a fianco nella lotta che non è solo sua ma di tutte le persone che scelgono di non sfuggire al senso di giustizia. La giustizia quella vera, quella che appartiene ad ognuno di noi nel profondo e che riguarda il nostro essere come parte di una collettività. Quel senso di giustizia che cancella ogni stigma e raggiunge velocemente scenari semplici e meravigliosi ai quali abbiamo il dovere di mirare. Che romantica che sono.Meno male che ci sono persone come Alfredo che riescono a riportare l’attenzione su questioni tanto importanti. E che oltre tutto, riescono ad agire proprio lì dove l’agire non gli vorrebbe esser concesso. Se pensate che il 41bis non sia tortura, informatevi meglio. Se siete d’accordo sull’uso della tortura da parte dello Stato, informatevi meglio. Se pensate che gli errori da parte dello Stato non ci siano o siano necessariamente e inevitabilmente da mettere in conto, informatevi meglio e pensate di più. Ammessa e non concessa l’eventuale validità del 41bis, della pena di morte, dell’ergastolo ostativo, o anche semplicemente della detenzione come fine risolutivo, i margini di errore, involontari o volontari, etici e pratici, sono più ampi di quanto possiate immaginare. Informatevi meglio e pensate di più. E – inguaribile romantica che sono – fidatevi di certe sensazioni che sembrano astruse e proibite, perché riguardano quel sano senso di giustizia che non potrà mai appartenere allo Stato, che è così traballante e così sempre lontano dall’essere, se non bastasse tutto il resto, perfetto e infallibile. Almeno certe cose, non lasciamo che lo Stato le possa maneggiare. Jack Sparrow Per informarsi meglio: Il dovere di fedeltà e il corpo di Alfredo Cospito di Xenia Chiaramonte
Incontro/seminario sul carcere, una proposta
Stiamo pensando di organizzare a Firenze, per l’inizio del prossimo anno, un incontro/seminario sul carcere… e dintorni. Più che dalla proposta di un tema conduttore vorremmo iniziare da una constatazione: le ultime riflessioni culturalmente importanti sulla questione risalgono – almeno in Italia – alla fine degli anni 80′. Quarant’anni dopo, oggi, tutto è cambiato. Naturalmente. Chi può provi a pensare a come era, cosa pensava, cosa aveva attorno… diciamo… nel 1986, l’anno di entrata in vigore della così detta “Legge Gozzini”, che interveniva, dopo la riforma del 1975 – quella si rivoluzionaria – sul tema carcere. Bene, dicevamo che da allora tutto è cambiato. Il sistema carcere e esecuzione delle pene no. In niente. Come una balena spiaggiata eppure ancora viva, è lì che ansima e sussulta fra l’indifferenza di quasi tutti. Organismo enorme, ingombrante, inutile, dannoso. Ecco. Noi vorremmo parlarne e vorremmo provare a sentire e dialogare soprattutto con voci ed esperienze lontane da qui. Se lontano è un aggettivo che ha ancora un senso. Oltre che le voci del nostro paese cercheremo dunque anche quelle di chi riusciremo a raggiungere, intanto, in Europa. Abbiamo bisogno di aiuto, idee, proposte e suggerimenti. Da qui cominciamo a cercare. L’Associazione
Almeno proviamoci. Sulle recenti cronache da Sollicciano.
Le recenti cronache da Sollicciano sulle condizioni interne all’istituto, con corredo di lettere di denuncia ai giornali e servizi in tv, purtroppo non ci riportano nessuna novità, niente che già non fosse noto. Niente che negli anni che abbiamo frequentato l’istituto non si sia stati “abituati” a sapere, rinchiusi fin qui in un bozzolo di rassegnazione, di coscienza anestetizzata che ci ha fatto tollerare il tutto. Va da sé che con l’andare del tempo le deficienze strutturali, ambientali, trattamentali ed igienico sanitarie non hanno potuto che aggravarsi. Ma Sollicciano dal momento della sua apertura non è mai stato un luogo che potesse davvero definirsi organizzato e civile. Nessuna novità. Dobbiamo però anche dire che tutti i protagonisti dell’universo separato che chiamiamo carcere, decisori ed esecutori – personale civile, agenti penitenziari, funzionari pedagogico/trattamentali, personale sanitario, magistratura di sorveglianza, ministri di culto, operatori sociali, volontari laici e religiosi, amministratori pubblici, associazioni ed ogni altro “addetto ai lavori“ – naturalmente per gradi diversi e ognuno per il suo ruolo, tutti sono responsabili per non aver saputo reagire adeguatamente a questa situazione. O per non averlo fatto abbastanza, a volte un ‘proforma’. Firenze, la città di Alessandro Margara ed Ernesto Balducci non lo merita davvero. A questo proposito, va anche rilevato che a fronte delle condizioni ipercritiche in cui versa il carcere di Firenze, esistono di contro in questo territorio attenzioni, investimenti e progettualità del pubblico e del privato sociale ben diverse e ben più mature di quanto invece succede dietro quelle mura. Stiamo parlando di accoglienza, progetti di reinserimento, percorsi di cura e accompagnamento delle persone, certo insufficienti ma reali, concreti, intellettualmente onesti. A maggior ragione fa rabbia e tristezza tutto il resto. Proprio Alessandro Margara diceva spesso che il carcere è in questo stato non perché si siano fatti o si facciano errori di gestione, ma perché si è voluto e si vuole che sia proprio così. La sua essenza punitiva tende costantemente a prevalere. Il carcere è comunque quanto al momento siamo costretti a subire in assenza di altre risposte più adeguate e più avanzate. Se il carcere però, nei fatti, genera solo la perdita della speranza di cambiamento, è proprio a questo che pensiamo di dover reagire. Chiediamo alle associazioni e ai singoli operatori che lavorano dentro e fuori gli Istituti di pena fiorentini di avviare o, se si preferisce, di riprendere una riflessione e un dialogo sui temi di questa lettera. Proviamo da parte nostra a suggerire due argomenti per la discussione: il regolamento penitenziario, con particolare riferimento all’istituzione e al funzionamento della commissione detenuti, ruolo e funzioni per questa previsti formalmente. Questo con l’obiettivo, fra gli altri, di dare maggior corpo e migliore organizzazione ai pensieri, ai discorsi e alle istanze direttamente espresse dai detenuti. Il rapporto fra carcere e terzo settore. Il nostro ruolo nei programmi delle misure alternative al carcere, la qualità di questi programmi, l’organizzazione dei servizi per chi esce e ruolo e qualità della nostra presenza all’interno dell’istituto. Sappiamo bene di intervenire in una situazione molto vicina alla metastasi irreversibile. Ma, fuori da ogni utopia, vorremmo spendere il nostro ruolo per tentare di reinterpretare con senso e buonsenso civile il sistema carcere fiorentino e le sue strutture di detenzione; provare a farne luoghi trasparenti agli occhi e alla mente della città, luoghi dove eseguire la pena – e la forma carcere non è ancora superabile, almeno non del tutto, per tale funzione – non debba per forza significare sporcizia, abbandono, malattia, ignoranza, violenza, incuria, cattiveria, ottusità, rassegnazione e disperazione. Ma è davvero così utopico da risultare impossibile? C.I.A.O.
Sulla scholè, la scuola
C’è bisogno di parole chiare, parole chiare e forti.Queste parole di Mattia Nucci raccontano la nostra idea di scuola e il motore che ci spinge ad intraprendere il percorso necessario per fondare, organizzare e far vivere una scuola per le persone che incontriamo in carcere, per quelle che accompagnamo fuori dal carcere nei loro percorsi di risocializzazione, che hanno necessità di recuperare il tempo perduto. Una scuola per tutte quelle persone che non hanno l’istruzione, le informazioni, gli strumenti culturali necessari per stare al passo e potersi relazionare con la realtà che tutti viviamo. Qui ti raccontiamo il nostro progetto e ti spieghiamo come fare a sostenerci. Scuola Sostantivo femminile derivato dal greco scholè, tempo libero. Da Platone ad Aristotele, i greci antichi esaltarono con costanza e fermezza la scholè. Solo nel tempo libero dalle necessità materiali, ovvero dagli impegni decisivi a procacciarsi di che vivere, è possibile occuparsi della propria anima, costruire la propria personalità, ragionare, imparare, crescere. Opposto al tempo libero della scholè stava dunque il lavoro, considerato come una semplice mancanza. E per questo definito per mezzo di quella lettera con cui la lingua greca nega ciò che segue: l’alfa privativa. L’a-scholìa era il tempo necessario a produrre, il tempo del lavoro attraverso cui ci guadagniamo il pane. Un tempo che si deve limitare il più possibile perché ciò che importa nelle nostre esistenze è il tempo che ci è dato da vivere e di quel tempo solo il minimo indispensabile deve essere impiegato per lavorare, produrre, far soldi. Nella quiete della scholè, gli esseri umani sviluppano ciò che è più importante: il senso critico. Nel tempo libero, essi possono chiedersi se esista un altro modo per fare ciò che fanno quotidianamente, se sia giusto quel che hanno imparato, se forse un’altra strada sia possibile. Interrogarsi, criticare, perché la crisi è ciò che conta. Ossia la Krisis, la scelta, la decisione, il bivio che ci consente di cambiare strada. La scuola, dunque, è quel luogo fisico e ideale dove ci dedichiamo a noi stessi per crescere e ragionare fuori da qualsiasi necessità materiale. La scuola è il luogo del ragazzo che non lavora. La scuola è lo spazio mentale dell’adulto che continua a chiedersi perché. In un tempo dominato dallo spirito protestante del lavoro, del denaro e della produzione ad ogni costo, un tempo in cui si è addirittura drogati di lavoro (workaholic) e incapaci di vivere il tempo libero, è facile capire perché la scuola venga sempre per ultima e semmai la si consideri come un semplice momento di preparazione al lavoro. Ma nessun cambiamento è possibile senza quello che è sempre stato il cuore della nostra civiltà: il senso critico. Ripartire dalla scuola significa questo. Matteo Nucci, Espresso gennaio 2020(Qualora l’autore, che non siamo riusciti a contattare, desideri la rimozione dell’articolo può scriverci o contattarci telefonicamente.)
Sui fatti di Sollicciano
Leggiamo quanto successo a Sollicciano. Ancora pestaggi.Che pena, che tristezza…Ancora una volta, di nuovo violenza gratuita in carcere. Non sorprende il fatto, il carcere non può produrre niente di diverso. Però quanta malinconica rabbia.La tristezza più grande… una donna, ispettrice di polizia penitenziaria, coinvolta come responsabile della “squadretta” di gentiluomini picchiatori. Quando decideremo che di questo carcere si può e si deve fare a meno sarà sempre troppo tardi.
D’altronde
è sempre questione di equilibrismi e punti di vista.
Ancora sulla raccolta delle olive del 2020
OLIOExtra Vergine di Oliva prodotto con olive raccolte a mano, da alberi e in terreni non trattati con sostanze chimiche e fertilizzanti.
La raccolta delle olive del 2020
Il tempo ci ha amato e da un freddo insolito è passato ad uno perfettamente ottobrino. Emozione per il primo giorno di raccolta. Ci saremo ricordati di tutto? Ma come una bella melodia tutto procede in accordo, le reti si stendono, le olive finiscono nelle cassette belle sane e turgide. Dopo tre giorni di fatica e di divertimento, 564 kg di olive … che poi vuol dire 70 kg di eccellente olio extravergine che saremo lieti di offrire a chiunque vorrà darci una mano.
Alla ricerca del tempo perduto
Il presidente Alessandro Margara, ogni volta che a lui palesavo il mio sconcerto e la mia frustrazione di fronte alle storture e alle malefatte del sistema carcere, immancabilmente mi rispondeva “… il carcere funziona così non perché qualcuno fa male il suo lavoro ma perché è così che la volontà che lo gestisce vuole che funzioni…”. Non siamo insomma di fronte a disfunzioni dovute a incapacità professionali o malintesi amministrativi bensì a modalità gestionali volute e perseguite. Dunque il carcere è così perché è così che deve essere per assolvere bene il proprio compito di punire, di annichilire, di “incapacitare”. In questo quadro, l’organizzazione del tempo in carcere riveste un ruolo di primo piano.Si capisce bene come, consistendo la condanna nella costrizione a trascorrere un determinato lasso di tempo in carcere, l’esecuzione della stessa si trasformi dal primo istante in un estenuante conto alla rovescia. Il tempo insomma è l’indiscutibile protagonista dell’esecuzione della pena.Il tempo, per convenzione, è diviso in anni, mesi e giorni. Provate a leggere, saltati tutti i preamboli, una sentenza: il signor tale dei tali è condannato a anni x mesi y giorni z. Per scontarli non c’è altro da fare che trascorrerli. Annullarli. Proviamo ad immaginare … anche se so che è impossibile.Mi sveglio, diciamo che sono le sette. Mancano 14 ore alle 21, ora in cui presumibilmente posso pensare, dopo un po’ di televisione, di organizzarmi per dormire. Cosa succede in quelle 14 ore? Le stesse inevitabili cose per ogni inevitabile giorno… … Carrello del caffè e latte, posta, carrello medicinali, ora d’aria, persone che urlano, parlare è raro, laboratorio di qualcosa, forse colloquio,forse avvocato, forse medico, carrello del sopravvitto, spesino, … carrello del pranzo, persone che urlano, ora d’aria, cella, conta, battitura sbarre, giornata verso la fine, carrello della cena… conta… battitura sbarre… il televisore lassù nell’angolo in alto funziona male, quello della cella accanto è troppo alto, … ho sonno ma addormentarsi non sarà facile… domani non ho niente da fare, niente e nessuno mi aspetta, sono io che posso solo aspettare che qualcuno mi dica cosa è possibile fare… aspettando… carrello del latte, posta, carrello medicinali, ora d’aria , conta… Niente di quanto scritto qui sopra dipende da te. Quel tempo, cadenzato da quelle cose, non è tuo. Non è di nessuno se non di un ripetersi quotidiano che uno scopo vero non c’è l’ha.Sei il non protagonista di una commedia nella quale però sei l’attore principale.In carcere il tempo , se non stai attento, diventa un incubo, se non stai attento cominci a contarlo. E diventa una malattia.Mi hanno condannato a anni x mesi y giorni z ….e io me li faccio tutti in branda. Niente di più piacevole da sentire per quasi tutti quelli che il carcere lo gestiscono. Diventa tutto più semplice. Evitare di cadere in questa malattia diventa il dovere di chi è condannato e di quanti in carcere ci lavorano.